Energia4 Luglio 2023 11:21

Unem: Gianni Murano nuovo presidente. “Tassa extraprofitti ha penalizzato il settore”

L’Assemblea privata di unem, tenutasi ieri presso la sede di Piazzale Luigi Sturzo, ha deliberato all’unanimità, su proposta del Consiglio, la nomina dell’Ing. Gianni Murano alla carica di Presidente dell’Associazione per il quadriennio 2023-2027.

Gianni Murano, che già rivestiva la carica di Vicepresidente di unem, succede all’Ing. Claudio Spinaci, in carica dal settembre 2015, al quale l’Assemblea e il Consiglio hanno rivolto un apprezzamento unanime per l’impegno e la dedizione mostrata in questi anni, ringraziandolo per il lavoro svolto. L’Assemblea e il Consiglio hanno poi rivolto un caloroso augurio di buon lavoro al nuovo Presidente.

L’Assemblea ha altresì nominato i quattro Vice Presidenti che affiancheranno il nuovo Presidente, nelle persone di:

• Raffaele Iollo (Q8)
• Giovanni Maffei (eni)
• Rosario Pistorio (Sonatrach Raffineria Italiana)
• Guido Ottolenghi (PIR)

Nato a Roma, Giovanni (Gianni) Murano si laurea in Ingegneria Meccanica presso l’Università “La Sapienza” di Roma. È sposato e ha due figli.
Viene assunto alla Esso Italiana nel 1990 come Project Engineer e, nel corso della sua carriera nel gruppo ExxonMobil, ricopre varie posizioni di crescente responsabilità, sia in Italia che all’estero – in Inghilterra e a Bruxelles – maturando esperienze in ambito tecnico e manageriale in diversi settori di business come la rete, la distribuzione, il supply, la programmazione petrolifera e la raffinazione.
In particolare, è stato:
- Project Engineer nel settore Rete della Esso Italiana, a Roma;
- Budget Coordinator nella Direzione Programmazione Petrolifera della Esso Italiana, a Roma;
- Distribution Manager della Esso Italiana per l’area Nord, a Venezia;
- Retail Strategy Advisor per lo European Planning Centre della ExxonMobil, a Leatherhead, nel Regno Unito;
- Supply Products Coordination Manager della Esso Italiana, a Roma;
- Mechanical Manager della Raffineria Esso Italiana ad Augusta (SR);
- Direttore della Raffineria SARPOM a Trecate (NO);
- Regional Operations Advisor della ExxonMobil per l'Europa, a Bruxelles.
Dal 1° Giugno 2014 è Presidente, Amministratore Delegato e Direttore Generale della Esso Italiana S.r.l. e Presidente della ExxonMobil Italiana Gas S.r.l.
Murano è anche Presidente della SARPOM S.r.l., membro del Consiglio di Amministrazione di Terminale GNL Adriatico S.r.l. e membro del Board dell’American Chamber of Commerce in Italy.

LO SPEECH DI GIANNI MURANO

Uno sguardo d’insieme
L’Assemblea di quest’anno ha per me un sapore particolare perché stavolta sono chiamato a fare gli onori di casa in qualità di nuovo Presidente di un’Associazione che ha avuto una parte importante nella storia di questo Paese e che rappresenta una filiera industriale ancora strategica per l’Italia.
Anzitutto voglio dedicare un ringraziamento speciale a Claudio Spinaci che negli ultimi otto anni si è speso moltissimo per l’Associazione, rappresentando al meglio le istanze delle nostre Aziende e guidandoci con lucidità nei momenti difficili.
Anni in cui l’Associazione ha progressivamente cambiato pelle - e nome - allargando il suo perimetro di rappresentanza ben oltre il petrolio, nella consapevolezza che la sfida ambientale dei prossimi anni ne imporrà una graduale sostituzione con altre risorse energetiche in grado di garantire, comunque, la mobilità di persone e merci.
Gradualità - che non vuol dire prorogare o dilazionare - è la parola chiave per il raggiungimento di obiettivi accettati e condivisi, perché le criticità di questi ultimi anni, non solo energetiche, hanno dimostrato la necessità e il valore della diversificazione delle fonti, senza la quale viene meno la sicurezza energetica che è alla base della sostenibilità, da intendere nella più ampia accezione del termine: ambientale, economica e sociale.
Concetti su cui Unem insiste da anni e che oggi sono evidenti e sottolineati da più parti come essenziali per il successo della transizione.
Ne abbiamo avuto ampia prova lo scorso anno in Europa, con prezzi del petrolio e del gas arrivati a livelli inusitati e pesanti ricadute su consumatori e imprese, mitigate in parte da un sostanzioso sostegno pubblico.
Complessivamente, nel periodo settembre 2021-febbraio 2023, i Paesi UE hanno stanziato quasi 650 miliardi di euro per proteggere i consumatori europei dai rincari energetici: l’Italia con circa 93 miliardi di euro (il 5,2% del Pil) è risultata seconda solo alla Germania che ha contato per circa il 40% del totale allocato. (slide 1)
Misure che hanno aiutato a tamponare il problema ma non a risolverlo e sicuramente non sostenibili a lungo dal punto di vista economico.
In questo ambito la tassa sugli extra profitti, che nel 2022 complessivamente ha generato un gettito pari a circa 2,8 miliardi di euro di cui poco meno della metà arrivato dal solo settore petrolifero, applicata peraltro due volte nel nostro Paese, unico caso in Europa e con percentuali ben maggiori della media europea, è andata a penalizzare il nostro settore proprio in un momento in cui ci sarebbe stato bisogno di più risorse da investire nella decarbonizzazione, come vedremo più avanti.
Ci auguriamo che la strada legale intrapresa dai nostri Associati possa rendere giustizia e non finisca come l’ennesima “vittoria di Pirro” come fu nel caso della Robin Hood tax.
Ciò dovrebbe fare riflettere su scelte politiche che in qualche modo sono alla base della crisi energetica, dal momento che si sono limitate a introdurre obblighi e divieti, senza una visione strategica di lungo termine.
Da questo punto di vista c’è stata un “iperproduzione” normativa e regolatoria, di cui il pacchetto “Fit for 55” è solo l’ultima espressione che ha vietato, di fatto, i motori a combustione interna dal 2035, a meno di successive possibili deroghe.
È evidente che tutto ciò ha reso sempre meno interessante per gli operatori investire sullo sviluppo delle fonti di energia tradizionali, che invece si sono rivelate essenziali per affrontare la crisi, e tanto meno su quelle candidate a sostituirle in ottica futura data l’incertezza del quadro.
Ciò vale in particolare per il petrolio che dal 2015 ad oggi ha visto dimezzarsi gli investimenti in nuova capacità, mettendo a rischio l’offerta futura e dunque la copertura della domanda.
Un recente studio dell’International Energy Forum (IEF), un’organizzazione sovranazionale che raccoglie i Ministri dell’energia di 72 Paesi sia produttori che consumatori, ha stimato che per prevenire tale rischio servirebbero investimenti annuali pari ad almeno 640 miliardi di dollari, il che equivale ad una spesa cumulata di circa 5.000 miliardi di dollari al 2030.
Lo scorso anno, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), tale spesa è stata pari a 465 miliardi di dollari, l’11% in più rispetto al 2021, mentre quest’anno è stimata intorno ai 500 miliardi, cioè circa il 30% in meno di quanto servirebbe stando alle stime dell’IEF.
Le prospettive non sono dunque rosee se si considera altresì che nell’ultimo quinquennio il tasso di sostituzione delle riserve (RRR), cioè quanto nuovo petrolio va sostituire quello già estratto, è stato in media del 50% rispetto al 100% di dieci anni fa.
Un declino che è la inevitabile conseguenza della scarsa propensione degli operatori privati ad impegnarsi in progetti a così lungo termine, al contrario delle National Oil Company ossia compagnie di proprietà statale situate principalmente nell’area Asia-Pacifico e nel Medio Oriente.
Eppure, gli scenari dell’Aie ci dicono che il petrolio al 2030-2035 sarà ancora la prima fonte di energia, sopravanzata dalle rinnovabili solo nel 2040, anche se, sempre secondo un recente rapporto dell’Aie, potrebbe raggiungere il picco di domanda nel 2028 per poi mantenere un profilo sostanzialmente piatto. (slide 2)
Stando a questi scenari, complessivamente al 2040 le fonti fossili copriranno ancora poco meno del 70%, rispetto al 79% attuale, di una domanda che nello stesso arco di tempo ammonterà a circa 17,5 miliardi/tep, il 17% in più rispetto ad oggi.
Gli stessi scenari ci dicono anche che i carburanti liquidi di origine petrolifera, per quanto con una quota crescente di origine biogenica o sintetica (stimata tra il 7 e il 10%), al 2040 soddisferanno circa l’85-90% della domanda del trasporti rispetto al 94% attuale.
Uno degli aspetti critici è che gli investimenti nella raffinazione tradizionale nei prossimi anni sono destinati a diminuire dati gli ingenti capitali necessari e la persistente incertezza sulle prospettive a lungo termine per il petrolio, cosa che, a detta dell’Aie, evidenzia il rischio di un potenziale inasprimento nelle forniture di prodotti raffinati a medio termine.

L’Europa di fronte alla sfida della raffinazione
È un fatto che il baricentro della raffinazione si sia ormai spostato verso Oriente, con la Cina che nel 2022 è diventata il primo Paese per capacità installata a livello mondiale, superando anche gli Stati Uniti.
Un fenomeno che ha subito un’accelerazione con le chiusure che si sono susseguite negli ultimi anni in Europa e negli Stati Uniti, a fronte delle nuove aperture in Asia e Medio Oriente.
Negli ultimi 10 anni in Europa la capacità di raffinazione complessivamente si è ridotta di oltre il 18% rispetto ad un aumento del 25% in Estremo Oriente e Medio Oriente; nello stesso periodo la domanda di prodotti petroliferi in Europa è diminuita dell’11%, mentre in Asia è aumentata del 36%.
Un ulteriore spostamento verso Oriente si avrà nell’arco dei prossimi cinque anni perché si stima che oltre il 70% della nuova capacità netta attesa a quella data, pari a 4,5 milioni barili/giorno, sarà concentrata nelle regioni ad Est di Suez. (slide 3)
È evidente che la disponibilità sui mercati internazionali di prodotti finiti, in particolare distillati medi, dipenderà in larga parte dagli sviluppi della domanda in queste aree.
Aree in cui la domanda è attesa in rapida crescita e che, tra l’altro, praticano una concorrenza asimmetrica nei confronti dell’Europa che ha maggiori costi in termini di lavoro, energia e CO2, e standard ambientali e di sicurezza molto più stringenti.
Un “corto” nella disponibilità di prodotti raffinati è qualcosa che noi europei abbiamo sperimentato lo scorso anno con l’embargo ai prodotti russi, in particolare gasolio, anche se con effetti diversi da Paese a Paese.
In Italia tutto sommato abbiamo limitato i danni grazie ad un’industria dalla raffinazione ancora in grado di soddisfare ampiamente la domanda interna e minimizzare gli impatti sui prezzi.
La competitività del sistema di raffinazione è perciò un importante elemento di cui tener conto sia per la sicurezza degli approvvigionamenti, sia per la strategia comunitaria di decarbonizzazione a lungo termine.
Un processo che non sarà immediato, ma richiederà anni. Anni in cui dovremo preoccuparci di continuare ad alimentare non solo il parco veicoli leggeri circolante che attualmente a livello europeo conta 250 milioni di unità - di cui solo l’1,5% elettriche – con un’età media di 12 anni, ma anche i mezzi pesanti, gli aerei e le navi.
Essendo la raffinazione un’industria capital intensive chiamata ad investire anche duranti i cicli economici negativi e viste le incertezze legate al suo futuro, la prima preoccupazione dell’Europa dovrebbe perciò essere quella di rendere questo passaggio il più sicuro possibile, con politiche che creino le giuste condizioni per stimolare gli investimenti necessari a riconvertire progressivamente le produzioni verso i nuovi prodotti decarbonizzati a cui ha parzialmente aperto le porte, anche grazie al lavoro del Governo italiano.
Per ora l’apertura c’è stata solo nei confronti di quelli definiti carburanti “rinnovabili di origine non biologica”, ossia gli efuels, ma non nei confronti dei biocarburanti avanzati e dei recycled carbon fuels perché ritenuti non “carbon neutral”.
Sulla definizione “carbon neutral” si gioca pertanto il futuro di questi prodotti che, come vedremo in modo più approfondito nel corso dell’assemblea di oggi, possono dare un contributo sostanziale alla decarbonizzazione dei trasporti, valorizzati e incentivati in altri Paesi, come ad esempio stanno facendo gli Usa con l’Inflation Reduction Act (IRA).
Ci aspettiamo che anche l’Europa ne comprenda l’importanza e agisca di conseguenza per evitare un processo di deindustrializzazione altrimenti irreversibile, a tutto vantaggio di aree che certamente non fanno della difesa dell’ambiente la loro priorità.
Noi ci impegneremo affinché si giunga ad una soluzione positiva, offrendo tutto il nostro supporto al Governo con il quale sembra esserci una maggiore “sintonia tecnica” sui temi energetici.

Nuovi equilibri sui mercati petroliferi internazionali
Oggi la sfida, oltre a quella ambientale, è anche legata al mantenimento di una adeguata capacità produttiva che ci permetta di procedere sulla via della trasformazione garantendo al contempo l’equilibrio di mercati petroliferi internazionali che negli ultimi anni sono stati messi a dura prova.
Anni in cui in qualche modo si sono affermati nuovi equilibri, con il consolidamento di nuove e vecchie alleanze.
L’Opec Plus, guidata da Arabia Saudita e Russia, ha progressivamente riguadagnato la scena in un contesto di crescente politicizzazione della questione energetica, tornando a sfidare i Paesi consumatori con l’obiettivo di sostenere prezzi del petrolio estremamente volatili.
Il Brent, a partire dallo scorso agosto, ha progressivamente perso terreno oscillando in un range di 80-90 dollari/barile rispetto ai 115-120 dollari del trimestre precedente, chiudendo il 2022 con una media di circa 99 dollari/barile (slide 4).
Un valore che è più alto del 40% rispetto al 2021, segno delle difficoltà dell’offerta nel rispondere ad una domanda che, nonostante i timori, nel terzo e quarto trimestre dell’anno ha abbondantemente superato i 100 milioni barili/giorno.
La stessa che, stando alle previsioni dell’Aie, quest’anno dovrebbe raggiungere il livello record di 102 milioni barili/giorno, 2,5 milioni in più rispetto allo scorso anno (+1,6 milioni vs 2019), superando i 103 milioni nel terzo e quarto trimestre e i 104 nel 2024. (slide 5)
Ciò è anche effetto delle scelte dell’Opec Plus che ha deciso, un po’ a sorpresa, di invertire la rotta rispetto al recente passato adottando, dal novembre dello scorso anno ad oggi, politiche di riduzione dell’offerta per un totale circa 4,7 milioni barili/giorno (pari al 5% della capacità totale).
Tutto sommato i prezzi sembrano avere reagito in modo piuttosto composto a questi nuovi annunci oscillando nella forchetta di 70-80 dollari/barile, ma l’offerta rischia diventare rapidamente insufficiente nella seconda parte dell’anno, vista la scarsa spare capacity mondiale, stimata nel 2-3% della domanda, legata alle difficoltà produttive non solo dei Paesi Opec.
Ciò che accadrà sul fronte dei prezzi nel prosieguo dell’anno è perciò difficile da dire viste le molte incertezze che ancora ci sono, sia dal punto di vista macroeconomico che geopolitico.
A meno di un inasprimento delle tensioni con la Russia, possibili anche a seguito del nuovo pacchetto di sanzioni europee, l’undicesimo, adottato pochi giorni fa, che potrebbe spingere le quotazioni oltre la soglia dei 100 dollari/barile, dato il contesto al momento le stime per il 2023 sono di un prezzo del petrolio abbastanza stabile intorno agli 80 dollari/barile.

Uno sguardo al mercato nazionale
Lo scorso anno sono successe molte cose che hanno modificato tendenze che sembravano ormai consolidate, tra cui il crollo del gas e delle fonti rinnovabili.
Gli alti prezzi che hanno caratterizzato il 2022 non solo hanno determinato un deciso calo della domanda di energia stimato nel 4,5% rispetto al 2021, ma hanno anche generato un fenomeno inflattivo che nei primi cinque mesi di quest’anno ha avuto ripercussioni sul sistema produttivo determinando un’ulteriore riduzione della domanda di circa il 6%.
Nella copertura della domanda si è tuttavia assistito, in questa prima parte dell’anno, ad un progressivo recupero del peso del petrolio che è tornato ad essere la prima fonte di energia con una incidenza sul totale del 38% rispetto al 34% del gas che ha risentito delle molteplici misure di risparmio adottate per fare fronte alla crisi delle forniture russe, nonché della debolezza della domanda industriale e delle temperature eccezionalmente miti (slide 6).
La fonte petrolifera, principalmente utilizzata per il trasporto e dunque meno interessata dalle misure di risparmio, si è dimostrata essere anche un valido sostituto del gas nella termoelettrica, con consumi che nel 2022 sono praticamente raddoppiati rispetto all’anno precedente (da 1,8 a 3,5 Mtep), data la possibilità per gli impianti industriali, introdotta nel febbraio dello scorso e operativa fino a marzo 2024, di massimizzare l’uso di combustibili diversi dal gas naturale.
Per quanto riguarda invece i consumi petroliferi totali nei trasporti, va rilevato che l’Italia è stato l’unico Paese europeo che già nel 2022 ha più che recuperato i volumi pre-pandemia toccando i massimi degli ultimi dieci anni, con la benzina, divenuta più conveniente del metano, che ha rosicchiato qualche punto percentuale anche al gasolio grazie all’affermarsi delle motorizzazioni ibride che lo scorso anno hanno rappresentato circa il 35% delle nuove immatricolazioni, dato confermato nei primi sei mesi di quest’anno (slide 7).
Il gasolio rimane tuttavia il prodotto autotrazione principe, rappresentando circa il 75% dei volumi dei carburanti venduti, di cui il 35% sul canale extra-rete dove si riforniscono perlopiù i mezzi pesanti.
Altro aspetto di rilievo sotto il profilo industriale, è stata l’accresciuta diversificazione delle aree di provenienza del greggio lavorato, nessuna delle quali supera la quota del 18%: sintomo di grande elasticità e garanzia di sicurezza negli approvvigionamenti.
Complessivamente nel 2022 le raffinerie italiane hanno importato 82 tipi di greggi provenienti da 28 Paesi diversi, per un totale di 62,5 milioni di tonnellate (+9,6% rispetto al 2021).
La flessibilità e resilienza del settore è stata confermata anche in questo avvio di 2023, con lavorazioni che nei primi quattro mesi sono ammontate ad oltre 22 milioni di tonnellate di greggio e semilavorati, in progresso del 7,4% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e superiori di oltre il 3% rispetto all’ultimo anno pre-pandemico.
Positivo anche l’andamento delle esportazioni che lo scorso anno sono ammontate a 28,3 milioni di tonnellate (+3,7% vs 2021) per un controvalore di circa 25 miliardi di euro in termini di contributo alla bilancia commerciale.
Nei primi quattro mesi di quest’anno sono già cresciute di quasi il 14% pari a circa 6 miliardi di euro sempre in termini di contributo alla bilancia commerciale.
Data la crisi e la conseguente esplosione del costo dell’energia, nel 2022 la fattura energetica con 114 miliardi di euro, cioè 64 miliardi in più del 2021 di cui oltre il 61% imputabile alla crescita dei prezzi gas, ha superato ogni record storico,
Quanto alla fattura petrolifera, sempre nel 2022, è stata pari a circa 33 miliardi di euro, 13 miliardi in più del 2021, con un’incidenza di circa il 29% su quella energetica.
La stima per il 2023 è di 77-78 miliardi di euro per quella energetica e di 24-25 miliardi per quella petrolifera. (slide 8 e 9)
L’elevato livello delle quotazioni internazionali dei carburanti, che si è riflesso anche sui prezzi alla pompa, ha generato nel corso del 2022 e nei primi mesi del 2023 molta preoccupazione e polemiche spesso aspre.
Dal 22 marzo 2022 a fine anno sono state introdotte misure specifiche di riduzione delle accise, non rinnovate con il nuovo anno, essendo le quotazioni internazionali tornate su livelli di maggiore “normalità”.
In occasione del ripristino dell’accisa piena, così come nel momento inziale di riduzione, il settore, come confermato da più fonti anche istituzionali, ha operato in modo trasparente riflettendo puntualmente le variazioni sul prezzo al consumo sia in salita che in discesa.
Se infatti facciamo un confronto tra i prezzi al consumo del giugno dello scorso anno con l’accisa ridotta e quelli attuali ad accisa piena, ci accorgiamo che oggi, nonostante appunto l’accisa piena, questi ultimi sono più bassi di 20-30 centesimi euro/litro.
Ciò vuol dire che i prezzi industriali, cioè quelli al netto delle tasse, nello stesso periodo sono diminuiti di 40-50 centesimi con un andamento più virtuoso di tanti altri Paesi europei, tra cui Francia e Germania che mediamente nell’ultimo anno hanno avuto un prezzo industriale superiore al nostro fino a 8-10 centesimi nonostante abbiano una rete distributiva certamente più efficiente della nostra.
Rispetto all’area euro, nei primi 6 mesi di quest’anno lo “stacco industriale”, ossia il confronto tra prezzo industriale in Italia e la media di quello dell’area euro, è stato negativo per 3-4 centesimi a fronte di uno “stacco fiscale” positivo di 10-13 centesimi. (slide 10)
Il dibattito che si è sviluppato nei mesi successivi al ripristino dell’accisa piena ha determinato una nuova misura di obbligo per il nostro settore e cioè l’introduzione, dal prossimo 1° agosto, di un nuovo cartellone sui punti vendita indicante il prezzo medio regionale per la rete stradale e nazionale per quella autostradale.
Una misura che non ci sentiamo di condividere che, oltre a rappresentare un nuovo onere per gli operatori, rischia di generare confusione nel consumatore.
Sarà perciò importante informare adeguatamente i consumatori per evitare nuove e inutili polemiche e credo che in questo caso sarà essenziale il supporto pubblico.
Restando in tema di prezzi e fiscalità, voglio solo aggiungere una considerazione in merito a quelli che vengono definiti “sussidi ambientalmente dannosi” (SAD) di cui si è tornati a parlare in queste ultime settimane sulla scia della nuova edizione del “Catalogo” pubblicata dal Mase.
Un documento che presenta novità importanti e condivisibili e che anticipa, ma ancora non sviluppa, la necessità di una valutazione più completa delle singole misure definite sussidi anche dal punto di vista economico e sociale.
Occorre infatti ricordare che, restando ai fossili, i “sussidi” non operano a favore delle società produttrici e distributrici dei carburanti, ma a favore di particolari categorie di consumatori in forma sgravi fiscali e agevolazioni, con finalità di sostegno alla competitività e all’occupazione: il “sussidio” va dunque al consumatore e non al produttore del bene.
Se l’obiettivo, come si legge nel “Catalogo”, è quello di eliminare entro il 2025 i “sussidi” ai fossili, in cui rientra impropriamente la differenza di accisa tra benzina e gasolio, oltre alla riduzione dell’accisa sul gasolio per gli autotrasportatori con i mezzi più efficienti (euro V e VI), per l’agricoltura, per la navigazione e per l’aviazione, ma anche per i carburanti utilizzati da taxi, ambulanze e Forze armate, misure che tutte insieme valgono oltre 6 miliardi di euro, dovrebbe essere detto altrettanto chiaramente che ciò si tradurrebbe in aumento automatico della fiscalità su questi prodotti a discapito della competitività delle categorie economiche che ne usufruiscono ovvero nell’individuazione, non impossibile, di misure fiscali alternative per mitigarne l’impatto su quelle stesse categorie.
Solo uscendo da questo equivoco potremo affrontare seriamente il tema complessivo del riassetto della fiscalità sull’energia in chiave strutturale e prospettica, come previsto dalla stessa proposta della Commissione UE nell’ambito del pacchetto “Fit for 55”.
Sulla stessa lunghezza d’onda dobbiamo insistere per sviluppare i SAF, ovvero i “Sussidi Ambientalmente Favorevoli”, per incentivare la penetrazione dei low carbon fuels e innescare quindi quel circolo virtuoso che potrà far leva sull’eccellenze della nostra filiera e centrare appieno gli obiettivi europei nell’ambito della decarbonizzazione della mobilità.
Abbiamo detto che tali carburanti decarbonizzati rappresentano una soluzione già disponibile per i trasporti visto che, in funzione della materia prima utilizzata per la loro produzione nonché delle tecnologie produttive, consentono una riduzione delle emissioni di CO2 fino al 100%.
Con una prospettiva in cui prevarrà una pluralità di carburanti con una componente fossile sempre minore, così come si affermerà una pluralità di offerta, appaiono evidenti i limiti di una rete distribuzione carburanti che oggi in Italia conta 21.700 punti vendita, certamente capillare ma anche sovradimensionata e inefficiente, che dovrà razionalizzarsi nel numero ed ammodernarsi per rispondere alla sfida della decarbonizzazione ed erogare tutte le diverse energie e servizi per la mobilità.
Da questo punto di vista è assolutamente da condividere l’iniziativa del Mimit di avviare a inizio anno un tavolo di confronto proprio sui temi della ristrutturazione e ammodernamento della rete, che è poi l’oggetto della seconda tavola rotonda della giornata.
Credo che le criticità siano note a tutti e non solo agli addetti ai lavori e ciò che serve è una riforma che vada ad aggredire i veri nodi del problema.
Le premesse per fare bene ci sono tutte, almeno stando ai temi individuati dal tavolo che, oltre alla ristrutturazione e ammodernamento della rete, intende approfondire la regolazione dei rapporti contrattuali tra titolare del punto vendita e il gestore, figura che è sicuramente coinvolta in questo processo, ed infine il contrasto all’illegalità.
Si è partiti con i giusti strumenti lavorando per la interoperabilità delle banche dati sulla rete carburanti delle diverse Amministrazioni interessate, essenziale sia a fini conoscitivi della rete stessa che per l’ulteriore contrasto all’illegalità dopo i buoni risultati di questi ultimi anni, per la digitalizzazione e la tracciatura completa fisica e finanziaria della filiera.
Come sappiamo tutti il diavolo è però nei dettagli. Quindi, mentre si registra una generale convergenza sul cosa fare per razionalizzare la rete, molti dubbi restano sul come farlo nel concreto.
Per quanto ci riguarda, siamo assolutamente favorevoli a strumenti che si fondano sulla modernizzazione, digitalizzazione e conversione verso la decarbonizzazione.
Uno dei combinati disposti della razionalizzazione della rete deve poi essere la lotta all’illegalità, piaga che colpisce questo settore, penalizza i più onesti e dà spazio alla malavita organizzata che appare evidentemente ben attrezzata per infiltrarsi non solo nel settore dei carburanti ma anche dei biocarburanti.
L’intervento legislativo è quindi cruciale per recuperare gettito fiscale ma anche una sana competitività del settore.
Speriamo sia la volta buona. Davvero!

Conclusioni

Gli eventi di questi ultimi anni hanno rafforzato la centralità delle catene di valore strategiche come lo è sicuramente quella del downstream petrolifero e dei low carbon fuels per la sicurezza energetica del Paese e la sostenibilità sociale della transizione.
Gli scenari delineati ci dicono che i carburanti liquidi avranno ancora un ruolo preponderante nel soddisfare la domanda di trasporto, direi quasi esclusivo in quello marittimo e aereo.
Ma più in generale, ciò che è ormai evidente a tutti è il fatto che non esiste al momento la soluzione vincente per la transizione energetica, ma esistono più opportunità e più soluzioni. La transizione energetica si conferma ancora una volta un problema complesso, fluido e con una molteplicità di sbocchi.
Ci troviamo di fronte ad una transizione che rappresenta un “ponte” verso l’energia decarbonizzata, ma un ponte ha bisogno di più pilastri che possano sostenerlo: carburanti liquidi e low carbon fuels sono tra i pilastri della decarbonizzazione.
Nei nostri studi degli ultimi anni abbiamo dimostrato come già esistono prodotti, tra cui i biocarburanti avanzati e i recycled carbon fuels, che permetterebbero di ottenere un immediato abbattimento della CO2 su tutto il parco circolante e sul trasporto aereo e marittimo, garantendo soluzioni accessibili a tutti i cittadini. Prodotti che, tra l’altro, hanno pienamente soddisfatto, superandolo, il contributo di energia rinnovabile nei trasporti a loro attribuito dal Pniec 2019.
Va dato atto al nuovo Pniec di aver adottato un approccio più pragmatico e improntato alla neutralità tecnologica, che fa leva anche su comportamenti di consumo responsabili.
Inoltre, ha sicuramente valorizzato maggiormente i LCF rispetto all’edizione precedente, anche perché senza il loro apporto molto, ma molto difficilmente riusciremo a decarbonizzare i trasporti, soprattutto quelli stradali.
I consumi indicati sono in linea con i nostri scenari anche se noi pensiamo si possa fare di più in termini di LCF.
Gli obiettivi di elettrificazione, rivisti peraltro al rialzo, sono ancora molto sfidanti e forse poco realistici, e perciò sarà molto importante definire nei prossimi mesi quale sarà lo sforzo richiesto al nostro settore, cosa su cui siamo pronti a confrontarci.
Per raggiugere l’obiettivo al 2030 di 6,6 milioni di auto elettriche (4,3 BEV e 2,3 di Plug-in indicati nel nuovo Pniec), bisognerebbe immatricolare per i prossimi 7 anni oltre 940.000 auto elettriche rispetto alle 117.000 dello scorso anno e alle 59.000 dei primi 5 mesi del 2023, cioè oltre il 70% di tutto l’immatricolato dello scorso anno.
Sarà perciò essenziale mettere in campo misure concrete di incentivi sia alla produzione, con la progressiva trasformazione delle materie prime lavorate dalle raffinerie, sia alla domanda per favorire la penetrazione dei LCF, come chiede anche la UE, senza però creare parallelamente obblighi che penalizzano il settore e ostacolano la ricerca e lo sviluppo.
Da parte nostra abbiamo previsto 8-9 miliardi di euro di investimenti addizionali per la trasformazione dell’intera filiera, volti appunto a potenziare la nostra capacità produttiva sui biocarburanti avanzati e i recycled carbon fuels, per lo sviluppo dell’idrogeno verde e degli e-fuels, su cui è stato introdotto un obbligo specifico essendo una tecnologia già riconosciuta dalla UE anche per i nuovi veicoli post 2035, nonché per la gestione delle emissioni all’interno delle raffinerie e la realizzazione di impianti per la cattura, stoccaggio e utilizzo della CO2 (CCS, CCSU): serve però una prospettiva che vada oltre il 2035.
Per raggiungere l’obiettivo, dunque, non basta disegnare scenari virtuosi e fare ipotesi poco realistiche alla luce di una non chiara e possibile evoluzione tecnologica di alcune opzioni.
Occorre pragmatismo e neutralità tecnologica, cosa che è mancata sinora.
Servono politiche e interventi che permettano di valorizzare al meglio il contributo delle infrastrutture produttive e distributive attualmente dedicate ai carburanti tradizionali e alle loro possibili evoluzioni.
Sono necessari una serie di fattori abilitanti che oggi evidentemente non ci sono a causa di una normativa comunitaria che tende ad escludere piuttosto che includere.
Il nostro sforzo in questi anni è stato quello di provare a riportare il dibattito pubblico su binari meno ideologici e in parte credo ci siamo riusciti.
Dobbiamo proseguire su questa strada, stimolando sempre più il confronto su basi tecniche e senza pregiudizi, ribadendo l’orgoglio industriale di fare impresa e di sviluppare e sostenere soluzioni sostenibili e alla portata di tutti.
Vogliamo essere protagonisti nei cambiamenti che abbiamo davanti senza subire scelte irrazionali che non sono nelle corde della nostra tradizione industriale.
Questo sarà il mio impegno per i prossimi quattro anni.
C’è tanto da fare su tutta la filiera, dalla raffinazione alla logistica, con il suo potenziale da mettere al servizio del Paese, per arrivare alla rete di distribuzione carburanti come vedremo oggi nel corso della nostra assemblea pubblica, perché unem ci vuole essere...davvero!